“La mia storia di dipendente affettiva che ora sta rinascendo…”

Chiara (nome di fantasia) è una donna coraggiosa. Perché ha trovato la volontà e la forza di ribellarsi alla dipendenza affettiva e perché, attraverso questa intervista, ci racconta la sua storia. Una testimonianza significativa e toccante che tocca aspetti intimi e personali, anche dolorosi, lasciando sempre aperta la porta alla speranza. Chiara partecipa al progetto dell’Ambulatorio Toniolo di Modena, ideato e condotto da Simona Silvestri, pedagogista, psicodrammatista CEIS,Dipendo da me. Per donne che amano troppo. Gruppo per dipendenti affettivi con l’utilizzo dello psicodramma classico”, attivo dal settembre 2019. Il gruppo si svolge tutte le settimane a Modena, al Teatro di Psicodramma. Durante il periodo di lockdown è proseguito online. “Utilizziamo lo psicodramma classico, una modalità attiva che permette la rappresentazione scenica del proprio mondo interno – spiega Simona Silvestri -. Il gruppo crea uno spazio di confronto significativo e autentico dove ognuno viene accolto e accettato nella sua individualità. La dipendenza affettiva è accompagnata da vergogna e da un forte giudizio personale, che vengono superati grazie al nutrimento dato dal gruppo”.

 

Chiara, qual è la sua storia e quando si è accorta di soffrire di “dipendenza affettiva”?

“Sono stata sposata per circa 30 anni. Negli ultimi anni mi sono accorta che, anziché vivere in condivisione con mio marito, avvertivo una solitudine affettiva che però non riuscivo a decifrare e a scandagliare in modo completamente lucido. Tutto era offuscato. Pensavo di essere io inadeguata, rincorrevo le sue attenzioni, elemosinando un affetto sincero, reale, che in realtà non c’era. All’ennesimo suo tradimento e menzogna, di fronte alle mie rimostranze e alla sua negazione, i litigi sono aumentati e si è aggiunta una evidente manipolazione e aggressività non solo psicologica ma anche di tipo fisico, di sempre maggiore intensità. In un crescendo a cui non riuscivo sottrarmi, subendole ed indebolendomi sempre di più. Dopo periodi in cui stavo consumandomi come una candela per la mancanza di amore, in cui la mia vita di persona adulta era completamente annullata e concentrata sulla sua, in attesa di quella sincerità e reciprocità che non sarebbero mai arrivate, ho iniziato ad interrogarmi perché continuassi a condurre una vita così umiliante, devastante, destrutturante. O meglio, una non vita. L’unica ragione era il sapere dov’era, cosa faceva; quando era presente inizialmente mi sentivo felice ed euforica poi, a causa del suo comportamento ambiguo, ambivalente, di legame e poi di rifiuto affettivo, iniziavo a stare male perché sentivo che comunque non c’era, era come se fosse di passaggio; appena se ne andava mi piegavo dal dolore a causa della sua assenza, come se fossi in astinenza e la mia vita si bloccava, in attesa. Navigando su Internet e digitando alcune parole significative del mio stato d’essere, mi sono imbattuta nel termine Dipendenza Affettiva. Ho iniziato a leggere tutto ciò che veniva proposto e ho realizzato che quella solitudine affettiva che vivevo, che quel turbinio contrastante di emozioni, quegli stati d’ansia, d’angoscia, di dolore, avevano un’origine ben definita. Mi ricordo che una sera mi sono avvicinata alla libreria e, spinta da una sensazione forte ma confusa, ho trovato il libro che inconsciamente stavo cercando, “Donne che amano troppo” di Robin Norwood.  L’avevo acquistato una decina di anni prima. L’avevo iniziato e mai finito. Non mi era piaciuto perché non riuscivo a capirlo, ma evidentemente l’acquisto era stato dettato da una sofferenza latente e dal desiderio di comprendere cosa mi stava succedendo. Tentativo di comprensione che era stato rimosso ed accantonato, evidentemente, per tanti anni. Era una sofferenza “antica” la mia. A questo punto ho capito che non potevo proseguire in questo modo, che non ero più quella persona appassionata, entusiasta, determinata, femminile quale mi ricordavo di essere, ma ero l’ombra di me stessa”.

È una situazione che ha affrontato da sola o ha potuto contare sul sostegno di familiari o amici?

“Negli ultimi anni mi hanno supportato ed aiutato a non annientarmi completamente le mie amicizie, che hanno cercato di starmi vicina. Ho sempre chiesto aiuto, consolazione, e sono stata ricambiata, ma non era comunque sufficiente ad affrontare in modo costruttivo ed efficace una situazione tale che né io, né tanto meno le mie amiche, sapevamo potesse trattarsi di una dipendenza vera e propria. Era necessario l’intervento di qualcuno di esperto”.

Cosa l’ha spinta e quanto “coraggio” è servito per partecipare alle attività del gruppo “Dipendo da me”?

“La spinta è stato il desiderio di riacquistare la mia dignità, di riappropriarmi della mia vita, di vivere la mia vita. Se non lo avessi fatto sentivo che sarei morta, sicuramente spiritualmente se non addirittura fisicamente. Non potevo essere ancora calpestata da una persona che mi tradiva, mi mentiva, mi manipolava, mi faceva sentire sbagliata. Da quel momento, dal momento che ho saputo, sempre attraverso la rete, che c’era il gruppo ‘Dipendo da me’ e da quando ho avuto il colloquio preliminare conoscitivo con la dottoressa Simona Silvestri, conduttrice del gruppo, il coraggio è aumentato sempre di più. È come se finalmente avessi intravisto un piccolo barlume di luce in mezzo a tanto buio. Non ho sentito alcuna vergogna ad aprirmi con la dottoressa: è stato un colloquio in cui mi sono messa completamente a nudo e, mi ricordo che quando sono uscita dall’incontro mi sono detta: “Finalmente… e ho risentito il mio respiro. Il gruppo mi ha accolto da subito con empatia e calore. Sono stata ascoltata e ho capito che non ero sola, non ero l’unica, che in ognuna delle altre partecipanti c’erano pezzi di ‘vita comuni’. Le attività e la modalità dello psicodramma mi sono sempre piaciute e mi hanno sempre arricchito. Inizialmente avevo il timore di essere troppo strutturata, troppo ‘rigida’ e non sufficientemente ricettiva. Invece, le mie perplessità si sono rivelate infondate. Mi sono fatta condurre, guidare e in breve tempo mi sono immersa nell’atmosfera totalizzante, magica e nutriente che si crea durante il lavoro col gruppo. Ogni incontro ha un legame con quello precedente, che si proietta poi in quello successivo. È un continuum; è un filo di luce che inizia a brillare timidamente e poi diventa un sole che illumina e scalda”.

Quali i benefici dalla sua partecipazione al gruppo?

“Il verbo ‘rinascere’ penso che possa essere esplicativo. È una rinascita perché sembra di tornare a nascere un ‘altra volta: uguale a tanto tempo prima e al contempo diversa. Il gruppo dona affetto, calore, comprensione, condivisione, confronto, scambio, forza, amicizia. Sto imparando ad ascoltare me stessa, a fidarmi di me, a dare importanza ai miei bisogni, a contare prima di tutto su me stessa”.

A che punto si sente del suo percorso e quale l’obiettivo finale che si propone di raggiungere?

“Il percorso non è ancora terminato. È stato doloroso, difficile, come tutti i percorsi di crescita. È un cammino comunque lungo, ma se mi volto indietro a guardare mi rendo conto di avere percorso migliaia di chilometri scoprendo aspetti, ricchezze di me che non pensavo di avere o che mi ero dimenticata che mi potessero appartenere. Sto cercando di mettere al centro della mia vita, oltre agli affetti familiari, me stessa. Sono io l’autrice e la protagonista del romanzo della mia vita. Un compagno può arricchire questa vita, abbellirla ma non riempirla né condurla al posto mio. È questo il traguardo che voglio raggiungere. È l’imparare a stare bene con me stessa, a volermi bene. A dipendere solo da me”.

Cosa consiglierebbe a una donna che vivesse la sua stessa situazione di dipendenza?

“Il primo consiglio è quello di ascoltarsi. La dipendenza affettiva rende confuse, fa perdere l’orientamento e si cade totalmente in balia altrui. Di chiedere aiuto alle persone care non bisogna vergognarsi. Chiedere aiuto dimostra forza e voglia di vivere, quello che la dipendenza cerca di togliere. Così come è importante rivolgersi ad una persona competente ed esperta. Come qualsiasi elemento o sostanza tossica si cerca di eliminare con una terapia ad hoc e mirata, così anche dalla dipendenza affettiva si può guarire attraverso l’aiuto di una seria professionista e del gruppo che ora considero le mie sorelle di cuore”.