La marginalità femminile: perché è fondamentale essere donne indipendenti economicamente

“Se cediamo, se gli diamo il minimo appiglio, non ci sarà più mestiere che queste, con la loro ostinazione, non riusciranno a fare. Costruiranno navi, vorranno navigare, combattere per mare… se poi si mettono a cavalcare, è la fine dei cavalieri” (Aristofane, “Lisistrata”).

Questa commedia greca è il primo testo ad oggi noto che tratti il tema della marginalità femminile e dunque anche dell’emancipazione delle donne, ottenuta attraverso la collaborazione tra donne che sono sempre più consapevoli delle loro possibilità e capacità di imporre la propria volontà agli uomini. In realtà, l’intento dell’autore era un altro, ma è comunque il primo segnale di presa di coscienza di un qualcosa che, dopo più di duemila anni stiamo ancora cercando di conquistare: il nostro posto.

Come si esce dalla marginalità, dalle retrovie di una società che ci vuole dimesse, sottomesse e ligie al ruolo di angeli del focolare domestico, ma anche lavoratrici (dentro e fuori casa), possibilmente curate, silenziose e soprattutto poco esigenti?

In primo luogo con l’indipendenza economica.
Nella mia ormai ventennale esperienza a fianco di donne italiane e straniere in difficoltà socio- economiche e /o abitative ho capito una sacrosanta verità: la cosa fondamentale per una donna è essere autonoma economicamente per non dipendere da nessuno ed essere dunque libera. Ma proprio da nessuno, nemmeno da quell’uomo che ci ha promesso amore eterno.
Libere dunque di determinare il proprio futuro ed eventualmente quello dei nostri figli. Libere di lasciare un partner violento o maltrattante. Libere di potersi trasferire, viaggiare o coltivare passioni e ambizioni.
Lavorare consente ad una persona di essere soddisfatta di se stessa, essere riconosciuta e relazionarsi al mondo esterno.
E invece… anche nel nostro Paese ancora oggi ci si scontra con il giudizio, le richieste della società e i vecchi stereotipi: una donna libera, indipendente, che si dedica al lavoro, che vive la sua vita a pieno è una cattiva madre e compagna.
Niente di più sbagliato: una donna realizzata professionalmente è una donna soddisfatta e felice. Una donna che non deve chiedere i soldi per comparsi un vestitino o andare dal parrucchiere è una donna determinata, che difende i suoi diritti ed è sicura di sé.
Eppure il benessere psicofisico di metà della popolazione non è così prioritario a quanto pare.
L’Ispettorato Nazionale del Lavoro denuncia che in Italia quasi 38 mila neomamme nel 2022 si sono viste costrette ad abbandonare il proprio posto di lavoro a causa dell’impossibilità di conciliare la vita lavorativa con quella famigliare.
E quando non lo fanno si scontrano con il gap salariale: a parità di mansioni, le lavoratrici guadagnano meno rispetto ai loro colleghi uomini. E occupano posizioni meno prestigiose.
Le cause possono essere attribuite agli stereotipi di genere che riguardano l’istruzione femminile. Se infatti il 22,4% delle donne italiane ha una laurea (solo il 16,8% gli uomini laureati) solo il 16,2% tra queste ha un percorso di studio in materie scientifiche, perché per un pregiudizio culturale le donne sembrerebbero più portate per le materie umanistiche a causa della loro “sensibilità”.
Dunque non basta avere un lavoro per migliorare la condizione di marginalità femminile, ma serve l’indipendenza economica, ergo un impiego che permetta di vivere e sostenersi. Molto spesso le donne che ho incontrato nel mio lavoro avevano un’occupazione certo, bassa manovalanza perlopiù, dura e impegnativa che però non permetteva loro quasi mai di poter far fronte ad affitto, bollette, alimentazione per sé e i figli, pur lavorando moltissime ore.

Un altro concetto importante alla base della condizione marginale è quello di disparità tra uomo e donna. Di contro, perché quello di parità prenda piede è necessario che vada impartito nei luoghi dell’educazione sin dalla prima infanzia. Giochi da maschio e giochi da femmina, che assurdità! Il gioco è gioco e rispecchia il carattere e il sentire dei bambini.
Nella comunità dove lavoro ogni anno accogliamo donne con bambini di tutte le età e provenienze geografiche nel mondo e ci prefiggiamo come obiettivo quello di insegnare ai nostri piccoli ospiti l’uguaglianza e la parità attraverso la condivisione e il gioco. I tornei di biliardino non si contano con buona pace di chi lo trova poco femminile. Il divertimento è trasversale!
La mia non vuole essere una rivendicazione, né retorico femminismo fine a se stesso, è una constatazione. Di fatti. E siccome i fatti sono agiti dalle persone e non da divinità superiori possono e devono essere cambiati.
La storia e la letteratura occidentali sono piene di donne che si sono ribellate ed emancipate dal cosiddetto “patriarcato” ovvero a quell’insieme di leggi, usi e costumi che pone la donna in condizione di sottomissione all’uomo. Ma il mondo non è fatto solo dall’Occidente e quest’ultimo non è necessariamente l’Eden dei diritti.
Nel nostro Paese, ad esempio, tanto è stato fatto negli anni dal lontano 1946 con il suo suffragio universale o dal 1975 e la sua Riforma del Diritto di famiglia, fino ad oggi. Ma molto è ancora da fare.

Ada Liuzzi Responsabile casa di accoglienza “Le Cento Lune” di Parma