Metti una sera a La Barca, 25 anni dopo. Una bella festa a Cognento, il 16 giugno, per festeggiare un compleanno significativo per la Residenza sanitaria psichiatrica per il trattamento di pazienti con disfunzionalità moderata o grave.
Grazia Fraccon, operatrice: “Quest’anno abbiamo deciso in équipe di festeggiare insieme al territorio di Cognento, che dal 2005 ci ospita. La Polisportiva Cognentese è il nostro Centro Diurno, punto di riferimento nella piccola frazione dove ospiti e operatori transitano durante il giorno. Già in passato in Polisportiva avevamo organizzato un’iniziativa per la ‘Settimana della Salute Mentale’ e insieme abbiamo costruito percorsi di volontariato e inserimento lavorativo. Abbiamo pensato di autofinanziarci, per incrementare un piccolo fondo destinato agli ospiti che hanno maggiori difficoltà economiche, attraverso la cena e le magliette celebrative. Una festa ‘fuori dai soliti muri’ poiché il nostro lavoro ha in primo luogo l’obiettivo di favorire l’inclusione sociale, sostenere le persone nel processo di risocializzazione, creare reti di opportunità insieme ai familiari, ai nostri amici, tirocinanti, volontari, ex ospiti ed ex operatori. Ne avevamo tutti bisogno di un momento di ‘normalità’ e anche di ‘leggerezza’ dopo gli ultimi due anni particolarmente pesanti a causa delle restrizioni Covid. La serata ha visto protagonisti centodieci persone per una qualche ragione legate al La Barca, in un convivio rallegrato dalla partecipazione volontaria del gruppo musicale Max & The Blue Finks, con il nostro animatore sociale Fabio Santulini e gli ospiti de La Barca che si sono esibiti in straordinari duetti e danze. Forse è un tempo in cui più delle parole abbiamo bisogno di nuove occasioni di prossimità e di celebrare venticinque anni di sodo lavoro con un pensiero rivolto al passato, a coloro che non ci sono più e ad ogni volto che ha abitato questa comunità, oggi qui in un presente ricco di speranze e di energie nuove”.
Stefano Carafoli, direttore: “Sono cresciuto assieme a La Barca. Lavoro qui dal giorno della sua apertura, 25 anni fa. Eravamo comunità ora siamo Residenza riabilitativa, ma i valori e i concetti base, così come il lavoro in équipe, sono rimasti quelli di allora. All’inizio è stata dura, ci sentivamo inesperti, medici e psichiatri non abituati a lavorare in gruppo. Ma abbiamo imparato in fretta… Come per tutto il CEIS, il lavoro in gruppo è il valore aggiunto. Il nostro modo di operare lo definirei ‘a foglia di cipolla’. Ogni ospite ha un tutor che redige un progetto personalizzato insieme ai servizi, alla famiglia, alla rete. Abbiamo tanti tipi di gruppi terapeutici: sulle emozioni, psico-educazionali, gruppi che si occupano della gestione della malattia e della guarigione. Ospitavamo persone che venivano dal manicomio e La Barca diventava la loro casa. Oggi la legge dice che si può rimanere al massimo due anni: la missione che abbiamo è aiutare le persone a riabilitarsi, ad acquisire un ruolo sociale all’interno della collettività, tenendo conto della propria malattia. In un processo di guarigione, di ricerca di un nuovo equilibrio”.
Responsabile de La Barca, da giugno 1997 al 2003, era Boze Klapez. “La Legge Basaglia disponeva la chiusura di quelli che venivano comunemente chiamati manicomi. D’intesa con i servizi sanitari, come CEIS pensammo che all’interno di una comunità gli ospiti potevano vivere e relazionarsi meglio che in una struttura ospedaliera e per questo ci offrimmo di ospitarli. Le differenze di funzionamento tra un ospedale e una comunità erano e sono enormi. In ospedale i ragazzi venivano trattati da pazienti e curati da specialisti. In comunità erano considerati persone attive, sostenuti da personale dedicato, chiamati ad essere ‘responsabili’. All’inizio la comunità era vista con molta diffidenza da parte dei familiari degli utenti, ma con il tempo siamo riusciti a far cambiare questa percezione. La svolta avvenne quando si decise di ‘riempire’ le giornate degli ospiti con delle attività. Si cominciò con cose semplici, come la lettura del giornale. Quindi Le pulizie delle camere e dei locali divenne un’abitudine condivisa, anche se servivano ore all’inizio. Ci si appassionava, si spronavano a vicenda perché finiti i lavori si usciva per andare al bar a prendere il caffè. Le giornate erano ‘piene’, l’aggressività degli ospiti diminuiva. Nell’arco di sei mesi la farmacoterapia calò in maniera sensibile. Perché le persone cominciavano a stare meglio, a dare un senso a sé stessi e alla loro vita”.