“Parliamo di persone non di detenuti, una giustizia educativa parte da qui”

“Dobbiamo parlare di persone, non di detenuti. Occorre conoscerne la storia, i legami, l’identità. Occorre lavorare sulle emozioni e sul cuore per rieducare”. “Il lavoro dell’accoglienza nelle comunità per detenuti in misura alternativa in Emilia-Romagna è un passo, ancora piccolo, ma nella giusta direzione. Occorrono finanziamenti e precise norme legislative in tal senso”.

Padre Giuliano Stenico, presidente Fondazione CEIS, e padre Giovanni Mengoli, presidente Consorzio Gruppo CEIS, hanno portato la propria esperienza, e quella quarantennale del Centro, in primo piano al confronto che si è tenuto nei giorni scorsi presso il Senato della Repubblica, nel corso della seduta plenaria dell’Intergruppo Parlamentare sui diritti fondamentali della persona dedicata al tema “Oltre il Carcere. Misure di comunità per una giustizia educativa”.

L’incontro, moderato da Bartolomeo Barberis, presidente della cooperativa “Il Pungiglione”, rappresentante sulle Tossicodipendenze presso l’ONU per l’Associazione Comunità Papa Giovanni XXIII, ha riunito figure di spicco provenienti dal mondo accademico, giornalistico, legale, associativo e testimonianze toccanti di ex detenuti.

“Nelle nostre comunità per tossicodipendenti ho incontrato detenuti facenti parte di organizzazioni criminali – ha sottolineato padre Giuliano Stenico -. Ma dobbiamo parlare di persone, non di carcerati. Per modificarne il codice morale e affettivo devi conoscerne la storia e l’identità, lavorare sulle emozioni e sul cuore. Se non si fa questo lavoro, la recidiva ci sarà. Occorre che qualcuno aiuti a ‘leggere’ cosa sono queste persone, cosa provano, andare a contatto con i motivi del loro malessere profondo. Questa è rieducazione. Il carcere, come risposta penale al crimine, è espressione della giustizia, la quale, se non è riparativa in ogni sua forma, non è giustizia. L’esecuzione penale non dovrebbe avere di mira la colpa, ma concentrare la propria attenzione alla persona perché nessuno può venire identificato con la propria colpa né col proprio passato. Vocazione del carcere, come di ogni altra istituzione (scuole, ospedali, tribunali…), è allora quella di ‘mantenere viva la speranza rafforzandone il fondamento’. E il fondamento di questa speranza risiede nella possibilità riconosciuta a ciascuno di essere diverso, di riscattarsi dal passato e progettare un futuro di bene. Quando incateniamo le persone al proprio passato finiamo per essere tutti dei pre-giudicati. Una pena che vuole soltanto punire la colpa è uno spreco di risorse e di umanità, perché non rende migliore né chi la subisce né chi la impone. L’esperienza e i dati oggettivi a nostra disposizione non possono confermare la narrazione sicurezza uguale carcere; sicurezza uguale inasprimento delle pene come deterrenza. Nessuno di noi, se è sano di mente, pensa che la prospettiva del carcere può fermare i femminicidi, la violenza sulle donne e la violenza in genere. Sono narrazioni che come il mantra immigrato uguale potenziale delinquente, non solo sono intenzionalmente e volutamente menzognere e, per questo molto gravi, soprattutto se impiegate da chi ha responsabilità amministrative e politiche, ma sono estremamente pericolose perché diffondono una mentalità, una sensibilità e una cultura che sono tra i principali fattori del diffondersi della violenza. Rinunciare ad educare l’affettività dei nostri giovani attraverso un approccio autocentrato, insensibile alle fragilità, unicamente prestazionale e giudicante che svapori la loro umanità è il pericolo più serio che stiamo correndo. I sintomi di questa febbre sono evidenti: l’esplosione delle percentuali di adolescenti con disturbi a valenza psicologica e psichiatrica, i ritirati sociali l’aumento esponenziale dei DCA, della instabilità delle relazioni e della violenza agita anche da giovanissimi. Ma questi fenomeni non interessano nessuno. Quello che manca è, come sempre, l’aspetto più importante: i vissuti della persona, le sue motivazioni, il bisogno di significato, violentemente represso nella nostra cultura, costantemente frustrato: fare un lavoro in cui è difficile scoprire e vivere un significato, in cui è impossibile esprimere la ricchezza della propria umanità, sentirsi utili per qualcosa e per qualcuno diventa a lungo insostenibile. Non si può parlare di detenzione separando la situazione umana dell’agente di polizia da quella del detenuto. È il contesto in cui vivono delle persone non delle etichette. Occupiamoci delle persone. Non ci può esser nessuna riforma senza questa priorità”.

Padre Giovanni Mengoli ha quindi ricordato l’esperienza di Casa don Giuseppe Nozzi, aperta a Bologna nel 2022 per l’accoglienza, in misura alternativa, di detenuti senza problemi di tossicodipendenza.

“L’azione del CEIS in questi 40 anni è stata volta a inserire il lavoro dell’accoglienza nella rete dello stato sociale. Da subito è apparso evidente come per i detenuti risulti necessario un sistema di welfare non relegato alle opere di carità assistenziale. Le comunità di accoglienza rappresentano per lo Stato un risparmio di costi rispetto al carcere e sono anche molto più efficaci riducendo la recidiva. L’esperienza della Regione Emilia-Romagna nel progetto di Cassa delle Ammende denominato “Territori per il Reinserimento” (TPR), che finanzia progetti in tal senso, è un passo importante anche se non ancora sufficiente, per rispondere ai tanti casi che meritano di essere sostenuti. Nell’ultimo bando TPR a Bologna i fondi per ampliare l’accoglienza sono aumentati, ma molte persone nelle carceri non possono uscire perché occorre snellire le procedure. Sono stati fatti piccoli passi nella giusta direzione… ma occorre farne altri!”.

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