2 Dicembre 2024
Home > Migranti e MSNA > MSNA: belle storie ma anche una situazione complessa, che genera “fatica”
Giovanni Mengoli

di Giovanni Mengoli*

Per il CEIS, oltre ad essere il presidente del Consorzio, mi occupo di minori stranieri non accompagnati, soprattutto sul territorio di Bologna.
Come Centro abbiamo cominciato agli inizi degli anni 2000, anche se la prima Comunità per minori, che peraltro accoglieva ospiti inviati dal Centro di giustizia minorile – vi invito a leggere le testimonianze di Boze Klapez e Isauro Galavotti al riguardo – nacque al Villaggio del Fanciullo nel 1999.

A Bologna gestiamo, all’interno del progetto SAI/MSNA, 102 posti, così suddivisi: 30 per la prima accoglienza a Casa Merlani; gli altri, in seconda accoglienza, al Villaggio del Fanciullo e in altre comunità collegate: Ponte, Agorà, Nadir e diversi appartamenti.

Il sistema di accoglienza per MSNA a Bologna l’abbiamo sviluppato nel tempo.
Dopo una prima fase in cui i ragazzi vengono osservati e conosciuti, a seconda delle capacità e delle competenze possono passare a situazioni di accoglienza leggera, dove sviluppare maggiori autonomie, sino ad arrivare agli appartamenti di “altissima autonomia”. Qui gli operatori seguono i ragazzi semplicemente verificando se portano avanti i progetti a loro dedicati.

In maniera analoga, sul territorio di Modena gestiamo 60 posti SAI/MSNA. Il sistema è simile a quello di Bologna. Casa Alda per la prima accoglienza, le Comunità Argonauta e San Pancrazio per la seconda accoglienza. Oltre ad appartamenti di “alta” e “altissima autonomia”, dove i ragazzi completano il loro percorso.

In convenzione con il Comune, il CEIS a Parma si occupa di 12 posti SAI/MSNA, all’interno delle Comunità Casa sull’Albero (più contenitiva ed educativa) e Il Nido (più rivolta verso l’autonomia).

La situazione, in questo 2022, rispetto all’accoglienza dei minori stranieri non accompagnati vede degli aspetti critici.
Prima di tutto sono cambiati i ragazzi che arrivano qui. Stiamo vedendo, rispetto al passato, minori motivazioni. In tanti vivono la Comunità solo come luogo di passaggio – in attesa del permesso di soggiorno e della maggiore età – luogo dove usufruire di servizi.

In confronto agli anni passati sono in forte aumento i ragazzi in cui non troviamo riscontro, né impegno, nei confronti dei percorsi che proponiamo loro per l’integrazione.

L’altra criticità è legata a quel flusso “anomalo” di arrivi, iniziato nel giugno 2021, che non ci aspettavamo, non lo conoscevamo e ci mette in difficoltà perché i posti a disposizione immediatamente si esauriscono. Questo cambia, di conseguenza, il ruolo che noi “giochiamo” nei vari territori.

A Bologna, con molti posti e la rete con altri  gestori, le risposte si riescono a gestire in maniera “adeguata”, a Modena siamo fondamentalmente soli e si fatica molto di più.

Su Modena abbiamo anche dovuto aprire strutture in emergenza, per rispondere alle richieste dei servizi sociali che ci hanno ripetutamente chiesto aiuto di fronte a questi flussi imprevisti e continui.

Nonostante le complessità, credo valga la pena continuare in questo nostro lavoro. In coerenza con il nostro stile e mettendo sempre i ragazzi al centro del percorso.

A noi interessa che per questi ragazzi il futuro sia migliore: poco importa se sono arrivati scappando dalla guerra, se attraverso un percorso migratorio condiviso con la famiglia o per qualsiasi altro motivo.

La Comunità deve dare un “senso” vero alla loro presenza, sostenerli verso l’autonomia e l’integrazione. Ciò che gratifica, e ci spinge ad andare avanti, è vedere questi giovani, che a tutti gli effetti sono cittadini dell’Emilia-Romagna, che nel tempo tornano in comunità a salutare, a condividere le loro gioie personali, di studio e di lavoro.

Relativamente alla mia storia personale, ho iniziato a lavorare per il CEIS nel 2002. Dopo un anno al COD, sono arrivato alla prima Comunità per minori di Modena, La Corte.

Già nel 2003 tra i ragazzi che accogliemmo c’erano molti MSNA. Si sapeva davvero poco di loro, anche dal punto di vista giuridico. Solo che per la convenzione di New York non si potevano espellere.

Da allora ne ho conosciuti tantissimi.
Nel 2014, assieme al collega Giancarlo Rigon, abbiamo raccontato in un libro, “Cercare un futuro lontano da casa”, 10 storie, non tutte con esito positivo, alcune incerte, per fotografare e aiutare a comprendere questo fenomeno.

Personalmente, guardando ai percorsi dei MSNA individuo tre “macro tipologie”.
La prima, la più numerosa fortunatamente, è quella dei minori che arrivano in Italia d’intesa con la famiglia, con l’aspirazione del permesso di soggiorno e la regolarizzazione, con l’obiettivo di trovare un lavoro, per provvedere a sé stessi e ai genitori.

Ho avuto l’occasione di andare un paio di volte in Albania, Paese dal quale arrivano adesso un gran numero di minori, raccogliendo l’invito di un ragazzo giunto come MSNA e che sucessivamente da maggiorenne ha lavorato per noi.

È stata un’occasione felice, ma mi sono anche potuto rendere conto di persona di quanto complesso possa essere vivere in quel contesto. Il disagio è evidente. Al posto loro sarei partito anch’io.

Anche l’arrivo e il percorso in Italia, peraltro, non sono per niente facili. Difficile accettare per loro che fino al compimento dei 18 anni un lavoro non lo puoi avere.

Quanti confronti con i ragazzi per motivarli, spiegando che “non si può avere tutto e subito”. Che occorre prima formarsi, prepararsi e poi, col tempo, diventando maggiorenni, si può cominciare a contribuire a sostenere la famiglia.

Spesso questa situazione crea ansia e sofferenza nei ragazzi, come nei genitori. Il nostro impegno nel far comprendere la situazione, anche attraverso il prezioso lavoro dei mediatori culturali, è elevato.

Di questi ragazzi l’Italia ha bisogno. Perché si impegnano in lavori che nessuno vuole davvero fare.

Sono tantissimi quelli che, soprattutto dai 16 ai 18 anni, conducono una vita molto intensa: frequentano la scuola, studiano, si impegnano per integrarsi. Dobbiamo non solo essere loro riconoscenti, ma consapevoli che costituiscono una risorsa per l’Italia.

Perché non ce ne rendiamo conto? Perché facciamo così fatica, come istituzioni, ad “investire” su di loro?

La nostra adolescenza è stata ben differente. Abbiamo l’eredità dei nostri genitori, non solamente intesa come patrimonio economico, ma anche eredità morale, che ci sostiene. Questi ragazzi, invece, dopo i 18 anni devono essere autonomi e spesso sono espulsi dal sistema di protezione prima che siano pienamente integrati.

Quindi ci sono gli “altri” ragazzi – la seconda “macro tipologia” –, quelli che scappano dalla sofferenza, dalla carestia, dalla guerra.

Ne abbiamo conosciuti tanti, anche di questi. Arrivano dall’Afghanistan, dalla Somalia e dall’Eritrea, in generale dall’Africa, profondamente traumatizzati, e chiedono asilo.

Con loro occorre un grande lavoro di pazienza e cura.
Il loro vissuto precedente talvolta spaventa, ma l’esperienza mi porta a dire che, alla fine, sono coloro che più si legano agli operatori. Gli anni trascorsi insieme creano legami molto profondi.

La terza “macro tipologia”, con uno slogan forse un po’ crudo ma efficace, e bisogna avere il coraggio di dirlo è rappresentata da coloro “che non hanno nulla da perdere”.

Magari già al loro Paese vivevano di espedienti, ai margini della società, estranei ai loro stessi genitori. Ecco, con questi ragazzi il lavoro è molto complicato, spesso si fallisce. Questa terza macrocategoria è quella che in forte aumento in questo periodo storico.

Noi li mettiamo subito di fronte a una scelta: “qui l’illegalità non è consentita”, che molti non accettano. Spesso si arriva allo scontro verbale, anche perché sono consapevoli che tu, nei fatti, sei impotente, non puoi mandarli via, e se non lo sanno direttamente loro, qualcuno dall’esterno li guida, con indicazioni esatte su cosa dire e come comportarsi.

È come un braccio di ferro.
Quando riesci a costruire un percorso virtuoso con qualcuno di questi ragazzi, la soddisfazione è enorme.

Rispetto al sistema di accoglienza dei minori non accompagnati oggi presente in Emilia-Romagna ed in Italia, mi preme sottolineare che come CEIS abbiamo contribuito a costruirlo.

Fino alla partenza del sistema SPRAR, per richiedenti asilo e rifugiati, quello che oggi è il SAI (Sistema Accoglienza Integrazione) e che interessa anche i minori stranieri non accompagnati, tutto il costo dell’accoglienza dei minori gravava sull’ente locale sul cui territorio il minore era intercettato. Con costi che pesavano in modo eccessivo sui Comuni.

Per questo, in particolare, nel territorio di Bologna – quando ancora non c’erano le Comunità autorizzate – abbiamo sviluppato delle realtà sperimentali; il tentativo era quello di ridurre in qualche modo i costi a carico dell’ente locale garantendo comunque una buona accoglienza. I flussi dei ragazzi si concentravano in prevalenza nel nostro territorio, a Bologna come a Modena, dove si trovava più facilmente lavoro.

Le Comunità del CEIS, aperte d’intesa col Comune, rappresentarono una risorsa importante. All’inizio le chiamavamo “pensionati” e dovevano servire per accogliere, come detto, un certo numero di ragazzi con costi contenuti.

La direttiva regionale, la 1904, attualmente in essere, ha poi sviluppato le cosiddette “Comunità per l’autonomia”, che hanno 14 posti e costi più bassi rispetto alle comunità educative, proprio partendo dalla nostra sperimentazione.

Sotto l’ondata migratoria del 2014, quando all’emergenza Nord Africa hanno fatto seguito gli sbarchi di massa, la pressione migratoria sul nostro Paese è diventata molto forte. Assieme agli adulti, arrivavano in gran numero anche i minori.  Il governo allora aumentò i fondi ai Comuni per l’accoglienza dei minori perché, ed è pienamente condivisibile, non si può far pesare sui cittadini di singoli comuni un onere che deve essere a carico dell’intera collettività.

Dal 2014 ad oggi, progressivamente tutta l’accoglienza è passata da un sistema in capo agli Enti Locali alla responsabilità del governo, che si fa carico delle spese, chiaramente delegando ai Comuni la supervisione delle accoglienze. Una procedura che ritengo corretta.

Per completare in modo strutturato  il sistema occorrerebbe che la Prima Accoglienza rimanesse in capo al Governo in modo da garantire un’equa distribuzione del flusso tra tutto il territorio nazionale, eventualemente anche con delle quote imposte, transitando i minori sui posti SAI/MSNA.

Si deve tenere conto poi che questo indirizzo del governo di uniformare i contributi per tutte le regioni d’Italia ha come conseguenza che territori come il nostro, dove le spese dell’accoglienza sono più rilevanti che altrove, siano risultati penalizzati.

Le tariffe e i contributi si sono abbassati: per poter garantire l’operatività, abbiamo dovuto aumentare i posti, incrementando gli oneri per il personale e, dobbiamo ammetterlo, riducendo la qualità del lavoro educativo che facevamo un tempo.

È stato un passaggio “grosso”, faticoso da digerire.
Essere abituati a un sistema che forniva servizi e certi standard di eccellenza e trovarsi di fronte a situazioni dove un certo numero di educatori era costretto a seguire il doppio dei ragazzi, ha comportato fatica e delusione negli operatori, fatica che risulta oggi molto forte per il cambio di tipologia di minori da accogliere, che non funzionano in un sistema come quello che si è reso necessario costruire per mantenere sostenibile economicamente l’accoglienza

Per fare fronte a questa mutata e complessa situazione, come CEIS abbiamo cercato di innovare e sviluppare il sistema attraverso, ad esempio, gli appartamenti, così che i ragazzi più autonomi potessero in qualche modo gestirsi da soli. Parliamo comunque di esperienze che talvolta funzionano anche meglio della Comunità, perché quando i ragazzi vengono responsabilizzati si vedono molti risultati positivi.

Restano comunque la fatica e le difficoltà che, talvolta, sommandosi alle scarse motivazioni nei ragazzi di cui si parlava prima, rendono oggi, a fine 2022, la sofferenza del personale ancor più visibile ed evidente.

*Presidente Consorzio Gruppo CEIS