di Federica Granelli*
L’avvio della mia esperienza con il CEIS risale al 1987, all’interno della cooperativa sociale Il Pettirosso, già aperta da un paio d’anni. Ho lavorato lì come educatrice sino al 2008. L’allora Provincia di Bologna aveva messo a disposizione i locali in via dè Mattuiani.Il primo presidente fu Claudio Miselli, un diacono con un forte investimento valoriale e una totale adesione alla filosofia del “Progetto Uomo”.
I primi operatori, me compresa, provenivano dalle più svariate esperienze. Non c’era una richiesta di specifiche professionalità, per cui la “spinta” era data dalla solidarietà, dalla disponibilità al volontariato per fronteggiare un fenomeno dirompente in quegli anni, la tossicodipendenza. Ricordo, tra i primi colleghi, un ex ferroviere, una suora laica, alcuni arrivavano per passaparola.
A 23 anni, da Milano venni a Bologna per motivi di studio e personali. Fu mio zio, amico dello stesso presidente e di alcune persone che frequentavano il Centro, a farmi conoscere la realtà de Il Pettirosso.
Rimasi subito affascinata dall’aspetto familiare della Comunità e dalla forte motivazione che si avvertiva. La formazione avvenne a Roma, a “La Casa del Sole”, alternando momenti di teoria ad esperienze all’interno di altre Comunità.
C’era molto bisogno di essere operativi, ed ebbi la fortuna di svolgere questa mia formazione tra Modena e Bologna. L’unica attività, a quei tempi, era fronteggiare la dipendenza attraverso la centralità della Comunità, che svolgeva una funzione quasi “salvifica”.
Il programma era strutturato nelle classiche tre fasi: accoglienza, Comunità e il momento del rientro. La sede dell’accoglienza de Il Pettirosso era dunque in pieno centro storico a Bologna, in una bella struttura, mentre la Comunità del CEIS stava a Modena. La collaborazione fu subito molto forte.
Sempre nel 1987, Il Pettirosso ricevette dal Comune di Crevalcore, in comodato gratuito, la grande sede dell’ex castello dei Ronchi (dove oggi opera la Comunità San Matteo). Da sede di accoglienza diurna, nella fase iniziale, divenne successivamente Comunità residenziale.
In seguito Il Pettirosso aprì due nuove strutture, una in una frazione di San Giovanni in Persiceto, Lorenzatico, la seconda, in centro a Bologna, per la fase di reinserimento.
I primi ospiti erano giovani, tutti con un grande coinvolgimento delle famiglie che per prime arrivano a Il Pettirosso “trascinando” i figli.
La tossicodipendenza era vista come un comportamento deviante, trasgressivo, un vizio che diventava piaga sociale.
Il nostro intervento puntava a riattivare un adattamento sociale attraverso l’assunzione di responsabilità sul piano personale, relazionale, lavorativo, in una chiusura totale col mondo esterno.
Parliamo di ventenni che abitavano in famiglia, con genitori giovani a loro volta, e che trovavano al Centro una possibilità di condividere un vissuto di solitudine, colpa e vergogna che allora era molto sentito.
Il percorso con le famiglie ha costruito un senso di aiuto, di confronto, di impegno reciproco all’interno del Centro che negli anni a venire si è rivelato molto proficuo.
Il lavoro era finalizzato a scalfire la “corazza” che caratterizzava il tossicodipendente, perlopiù utilizzatore di eroina, e che in tempi brevi e facilmente perdeva tutto, a partire dalle risorse economiche, a differenza di quanto accade oggi.
Veniva messo alle strette, perché erano da subito evidenti la sua sofferenza e l’incapacità di comportamenti responsabili nel lavoro o nello studio.
Si cercava di abbattere le difese, di entrare in contatto con le storie delle persone in un’ottica sistemica nell’analisi del problema e nella costruzione di risposte.
L’altro grande lavoro era quello di proporre un modello di comportamento a cui gli utenti dovevano assolutamente adattarsi. Veniva sostanzialmente annullata una parte dell’identità del ragazzo, l’adesione alle regole era totale, le motivazioni dovevano essere forti così come le selezioni. Era l’utente che doveva adattarsi al contesto terapeutico, non il contrario.
Le abitudini personali rimanevano fuori dalla porta, tutto era regolato: routine, orari, attività, non si potevano avere soldi né privilegi. Nei primi mesi non si poteva uscire, era un sistema a forte leadership, carismatico, con precise gerarchie.
Gli utenti più anziani diventavano esempi e riferimento per gli altri.
Il senso di condivisione, di solidarietà e i legami erano molto forti tra gli utenti e pure tra gli operatori.
I primi anni il presidente stesso era operativo, sia con gli utenti che con le famiglie, coinvolte in gruppi serali. I lavori in Comunità erano sostanzialmente due: di rivisitazione biografica, in parte, e di responsabilizzazione delle persone. All’epoca, anche per la rigorosa selezione iniziale, i percorsi avevano tutti un esito di successo.
Ma negli anni abbiamo visto tante ricadute e utenti con caratteristiche “positive” che tornavano, presentando dipendenze importanti spesso accompagnate da malattie.
Solo con il passare del tempo, in sintesi, si comprese che la situazione era molto più complessa di quanto credevamo. Fu li che iniziò un’opera di rivisitazione del programma perché fosse questo ad adeguarsi alle persone e non viceversa, personalizzando e specializzando i percorsi.
Non posso, infine, non ricordare il collega Alessandro Dionigi, con cui ho lavorato in accoglienza, in Comunità e al reinserimento.
A Il Pettirosso, in gran parte per merito suo, abbiamo sempre prima fatto le cose per poi “metterle a sistema” successivamente. Siamo sempre partiti dalla parte pratica. E questo credo sia diventato un patrimonio comune per il CEIS, come quello spirito volontaristico che ha sempre caratterizzato i fondatori ed è qualcosa di ineguagliabile.
Oggi siamo un sistema estremamente professionale, attento ai bisogni delle persone, in rete con i servizi del territorio; tutti aspetti fondamentali ma che forse talvolta mettono un po’ in ombra quei tratti motivazionali, solidaristici e di volontariato che reputo altrettanto decisivi.
Tendenzialmente sono una conservatrice, lavoravo molto in Comunità. Alessandro si dedicava all’accoglienza, al rapporto con i servizi. È gran parte suo il merito del lavoro di promozione e riconoscimento del Centro sul territorio.
Aveva una capacità di prevedere il futuro, in termini di progettazione, di leggere i bisogni e di pensare risposte innovative, uniche, come nessun altro collega.
La sua seconda, decisiva intuizione, fu legata alla realizzazione, concreta e operativa, del “Progetto Narciso” rivolto ai cocainomani, ancora oggi uno dei fiori all’occhiello dell’attività CEIS.
*Coordinatrice Area Scuola e Prevenzione Modena-Bologna – Educatrice a Il Pettirosso 1987-2008