19 Aprile 2024
Home > Dipendenze patologiche > Fui la prima operatrice donna. E testimone di nozze del “bullo” della Comunità…
Daniela Scrollavezza

di Daniela Scrollavezza *

Lavoro al CEIS da quando è nato. Sono di Piacenza, a Modena dal momento in cui è stata aperta la Comunità La Torre. Negli anni ’80 avevo un amico tossicodipendente, con altri coetanei cercammo di aiutarlo ma senza successo, la famiglia era disperata.

Mi misi quindi in contatto con don Giorgio Bosini, in quanto anche lui si stava cominciando ad occupare del problema; diventò poi fondatore e presidente CeIS a Piacenza.

Lo ricordo con commozione, è stata una delle molte vittime del Covid.

Assieme ci rivolgemmo al CEIS di Roma, da don Mario Picchi. Sapevamo che lì avevano adottato un programma terapeutico che funzionava. Andammo con anche padre Giuliano Stenico e don Giuseppe Dossetti.

Quello che vedemmo a Roma ci piacque. Lì si parlava delle dipendenze come di “un uomo con un problema in più”, come sintomo di un disagio esistenziale. Il metodo che proponevano rendeva la persona protagonista e soggetto attivo del suo percorso di recupero.

Ci piacque anche perché non erano solo un metodo o un percorso riabilitativo, ma una proposta di vita finalizzata al reinserimento sociale. A quel tempo a Roma avevano fondato anche una scuola di formazione per preparare i primi operatori.

Capimmo che era un modello ripetibile. Decidemmo quindi di far partire “Progetto Uomo” in Emilia-Romagna come progetto regionale.

Ciascuna delle tre città interessate – Piacenza, Reggio Emilia e Modena – aveva un proprio Centro d’accoglienza per ragazzi e famiglie, ma un’unica Comunità, la cui sede fu individuata a Modena.

Nel 1983 aprì la Comunità: eravamo quattro operatori. In verità, la prima Comunità fu a Lesignana, in una villa messaci a disposizione da una famiglia di Modena in attesa della ristrutturazione de La Torre. Era già un primo segnale di come la città ci stava accogliendo.

Quando ci trasferimmo a La Torre, nella sede attuale di via Poli, la Comunità aveva una struttura forte, piramidale. Gli operatori avevano molta responsabilità e potere, e altrettanta autorità.

Fondamentale era il lavoro insieme. Essere autorevoli, rispettosi, dovevamo essere i primi a vivere quello che chiedevamo ai ragazzi: onestà, rispetto e responsabilità.

Quel periodo fu decisivo per il mio percorso di 40 anni al CEIS. Ho acquisito lì molta sicurezza, grazie alle persone con cui lavoravo ma anche agli ospiti. Diversi gli episodi che ricordo di quel periodo.

Entrare in Comunità allora era molto difficile, riuscivi solo se davvero molto motivato. Comportava un colloquio iniziale con una rappresentanza di operatori e ospiti per valutare le reali motivazioni di chi si proponeva. Non era semplice passare quell’intervista. Era invece molto semplice uscire dalla Comunità, perché le porte erano aperte. Andarsene era possibile in qualsiasi momento.

Il primo abbandono riguardò una donna e questo per me fu un momento difficile, in quanto ero l’unica operatrice e mi sentivo responsabile di questa fuga. Il sostegno degli altri operatori è stato decisivo per me, così come alcuni incontri con i ragazzi.

La prima notte in Comunità la feci io, la ricordo come fosse ieri. Gli ospiti mi fecero un interrogatorio: “Ti sei mai fatta? “Cosa ti spinge qui?”. Fu un passaggio chiarificatore, mi resi credibile agli occhi dei giovani ospiti.

E ancora. Entrò una sera  un ragazzo che in piazza, il luogo di ritrovo dei tossicodipendenti di allora, eroinomani, era riconosciuto come un duro, uno spacciatore.

Si sedette a tavola con alcuni degli ospiti più anziani, io ero a un tavolo vicino. Mi resi conto che aveva un atteggiamento da bullo, era prepotente e nessuno aveva il coraggio di reagire o dire nulla.

Finito di cenare andai in ufficio e mi resi conto che non poteva lasciare passare così quell’episodio. Convocai quel ragazzo e lo richiamai a voce alta. Il richiamo era uno strumento della Comunità. Lo feci in modo che tutti gli altri sentissero. Una volta che fu uscito dovetti sedermi, le gambe mi tremavano perché lui era grande e grosso, io piccola e mingherlina. Una volta che mi fui ripresa, sentivo un assordante silenzio all’esterno. “O sono andati via tutti o sono lì fuori che mi aspettano”, mi dissi…. Invece uscii e li trovai tutti a testa bassa, che lavoravano. Fu un momento importante, presi fiducia in me stessa.

Non fu risolutivo per quella persona, perché gli interventi di quel tipo col ragazzo furono innumerevoli nel tempo, però riuscì a terminare il suo percorso terapeutico e a reinserirsi. Tanto che mi invitò al suo matrimonio come testimone.

Ogni mattina, per iniziare la giornata, in Comunità si leggevano passaggi dei precetti del “Progetto Uomo”. Uno dei più significativi dice: “Siamo qui perché non c’è alcun rifugio dove nascondersi da noi stessi, fino a quando una persona non confronta se stesso negli occhi e nel cuore degli altri scappa, fino a che non permette loro di condividere i suoi segreti non ha scampo da questi… timoroso di essere conosciuto non potrà conoscere se stesso e gli altri, sarà solo…”.

Quando entravi in Comunità cominciavi ad assumerti delle piccole responsabilità per poi, verso la fine del percorso, ricoprire un ruolo quasi alla pari di un membro dello staff.

Ogni passaggio comportava un atteggiamento più maturo e consapevole. Si diventava responsabili di un settore e poi delle persone; ci si interessava di ciò che capitava agli altri, per poi cercare di aiutarli e di accompagnarli nel loro percorso. Fino a che gli stessi ospiti diventavano “modelli positivi” per gli ultimi che entravano.

Quando nacque La Torre, la gente di Modena prestò molta attenzione. Anche perché in quegli anni il tossicodipendente era palese e si mostrava in pubblico, non si nascondeva come può essere oggi. Nelle piazze, nei parchi, trovavamo le siringhe per terra. A molti, ed è capitano anche a me, hanno rubato la radio dalla macchina spaccando il finestrino.

Quando siamo nati, qualcuno per solidarietà, altri per questioni di controllo sociale, fatto sta che molti ci chiamarono per ascoltare la testimonianza di quello che stavamo facendo. A quei tempi l’Ausl non era pronta nelle risposte come oggi, non era strutturata. La Comunità non era una delle risposte, era “la risposta”.

L’alleanza che in quegli anni si riuscì a costruire con le famiglie fu fortissima. Il motivo che convinse tantissimi ragazzi a intraprendere un percorso terapeutico.

*Presidente CeIS Piacenza, prima operatrice donna a Modena