29 Marzo 2024
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Padre Giuliano Stenico

di Padre Giuliano Stenico*

Ho una domanda per lei: perché ha voluto fondare il CEIS?

“Veniva fuori un problema e noi l’affrontavamo. Prima le tossicodipendenze, poi l’Aids, i malati psichici, i minori, i disturbi del comportamento alimentare. i rifugiati richiedenti asilo…”.

Così sono nate La Torre, La Barca, Casa San Lazzaro, Coccinella, Agave? È lei che trova le case?.

“Sì”.

Ha mai avuto problemi?.

“Sempre. Abbiamo aperte case per tossicodipendenti e la gente diceva: qui vengono gli spacciatori. Abbiamo inaugurato la residenza sanitaria psichiatrica e i commenti erano: i matti vicino casa non li vogliamo”.

Tutto questo nell’arco di 40 anni?

“Sì, e ho cominciato che avevo 33 anni…”.

Il CEIS nasce il 13 dicembre 1982, a seguito di un mio coinvolgimento mosso dall’ascolto di persone, in particolare genitori, che avevano il problema della tossicodipendenza dei figli che assumevano sostanze. Le famiglie furono subito coinvolte nella costruzione del “Programma CEIS”, sulla metodologia del “Progetto Uomo” che ancora oggi accomuna i CEIS nazionali.

A partire da questo approccio, nel tempo abbiamo intercettato e coinvolto molti compagni di viaggio. Non solo genitori ma anche volontari, che ci hanno aiutato a trovare le strutture e le alleanze necessarie.

È stato un cammino comune: al di là delle situazioni personali e del “ruolo”, vuoi come genitori, operatori o volontari, eravamo uniti tutti dalla stessa passione e dal medesimo obiettivo: offrire alle persone una via di uscita da sofferenze molto significative e importanti.

La storia del CEIS è partita proprio dalla tossicodipendenza perché negli anni ‘80 la droga era un’emergenza assoluta, una tragedia, e non c’erano risposte adatte per affrontarla.

Dopo il primo servizio di accoglienza, aperto a Modena in via Bacelli e che significò creare un contatto con le famiglie, offrire sostegno,  motivare i ragazzi a intraprendere un percorso comunitario all’inizio percepito come molto impegnativo, nel 1983 ecco la prima Comunità terapeutica, all’inizio provvisoriamente in una casa messa a disposizione da un amico a Lesignana. L’esperienza fu poi trasferita presso La Torre a Modena, l’attuale Comunità.

Il periodo di contatto iniziale con le famiglie e con i ragazzi si trasformò e si allungò, diventando accoglienza diurna. Dopodiché si è sviluppato il rientro come ultimo passaggio, ovvero l’ospitalità dei ragazzi in appartamenti all’esterno della Comunità, con percorsi dedicati per affrontare i temi dell’inserimento sociale e lavorativo, fino ad accompagnarli all’autonomia definitiva.

La Comunità La Torre è stata sin dall’inizio “mista”, accogliendo sia maschi che femmine.  Negli anni successivi decidemmo di costruire a Modena una nuova Comunità, Casa Mimosa, dove le madri potessero seguire il “percorso” rimanendo insieme ai figli. La percentuale di ricaduta nella dipendenza si abbassò in maniera fortissima, fino quasi a scomparire. Nel lavorare contemporaneamente sulle competenze genitoriali delle ospiti e sulla problematica della tossicodipendenza abbiamo ottenuto successi molto importanti.

La seconda Comunità aperta a Modena fu Casa San Lazzaro, nata come progetto per accogliere malati di Aids, a seguito dell’osservazione, a metà anni ’80, del fatto che il contagio si diffondeva prevalentemente tra i tossicodipendenti. Immaginammo dunque di dover dare una risposta al problema e, in accordo con il Reparto Malattie Infettive e con il SERT, nacque la Casa Alloggio.

Oggi nelle strutture per malati di Aids, oltre a Casa San Lazzaro abbiamo Casa Padre Marella a Bologna, vengono inviate persone con malattie croniche. La caratteristica principale è che l’attenzione è rivolta non tanto alla malattia, ma al contesto e alla “rete” sociale da costruire attorno a queste persone.

Quando l’ospedale psichiatrico di Reggio Emilia chiuse, noi ci presentammo per accogliere quelli che allora venivano chiamati, in maniera orribile, i “residuati manicomiali”. La nostra ipotesi era, aprendo la Comunità La Barca, di destrutturare quegli aspetti istituzionalizzanti che i malati avevano assunto, e ciò avvenne attraverso una partecipazione effettiva e sentita alla vita della Comunità.

Tuttora siamo convinti che i nostri servizi e le Comunità debbano essere luoghi di riabilitazione, che occorra aiutare gli ospiti ad esprimere le loro possibili autonomie, le abilità e le competenze partecipative.

Negli anni si è manifestata l’esigenza di dare risposta al crescente numero di minori italiani con problemi di tossicodipendenza. Abbiamo aperto dei moduli all’interno delle Comunità terapeutiche tradizionali con l’idea di ottenere una “compensazione”: le persone adulte che stavano facendo un percorso di recupero avrebbero agito da rimotivatori. E la cosa, effettivamente, ha funzionato.

Ora però il numero e il tipo di problematiche che i minori tossicodipendenti presentano sono molto rilevanti e pensiamo ci sia bisogno anche di una Comunità specifica, che peraltro abbiamo già avviato a Parma.

La necessità di accogliere minori con problemi non solamente di dipendenza si mostrò, da subito, rilevante e importante. Abbiamo risposto al bisogno aprendo, sia sul territorio di Bologna che di Modena, Comunità dedicate. All’inizio con solo minori italiani, perché allora il fenomeno migratorio di minorenni stranieri non accompagnati non si era ancora manifestato.

Osservammo però che alcuni ragazzi avevano problematiche rilevanti dal punto di vista psichiatrico e proponemmo alla Regione Emilia-Romagna di strutturare dei moduli dedicati all’interno delle Comunità, perché pensavamo che in quel contesto i minori con problemi di tipo psichico, purché non fossero un numero rilevante, potevano fare un’esperienza che li aiutasse. Nel 2019 abbiamo quindi aperto a Bologna Eureka, prima Comunità dedicata solo a minori con problematiche psichiatriche. A novembre 2022 abbiamo inaugurato a Modena “Gen-Z”, comunità semiresidenziale per minorenni con problemi psico-patologici.

Si è poi manifestata la necessità di accogliere minori stranieri, a seguito della crescita dell’immigrazione verso quei percorsi, molto difficoltosi, che tutti conosciamo. I minori stranieri non hanno le problematiche dei coetanei italiani, ma altre, differenti. Dalla famiglia, ad esempio, hanno ricevuto una specifica mission, che è quella di mandare soldi in patria: non hanno come obiettivo un percorso educativo, ma di inserimento.

È ovvio che vanno affrontati simultaneamente entrambi gli aspetti, quello educativo e di comprensione della società. E sono queste le cose che facciamo: l’accompagnamento allo sviluppo e alla crescita personale, il sostegno e e il perseguire l’inserimento lavorativo.

Un tema che ci ha toccato, nel tempo, è quello dei migranti adulti, intesi come rifugiati richiedenti asilo, persone che non hanno ancora il permesso di soggiorno, con tutte le problematiche che questa situazione comporta. Abitative, per esempio, altre che riguardano l’acquisizione di competenze necessarie per lavorare. Noi li ospitiamo e cerchiamo di sostenerli in questi passaggi. Abbiamo anche una scuola di italiano che rilascia una certificazione linguistica riconosciuta. Vengono poi proposti corsi di inserimento lavorativo e di educazione civica.

Da una decina d’anni ci occupiamo di disturbi del comportamento alimentare, sempre più diffusi e legati alla cultura che stiamo vivendo, dove visibilità e attenzione alla corporeità sono fondamentali.  Anoressia e bulimia sono comportamenti che sottintendono problematiche personali molto rilevanti e diffuse. Cerchiamo di rispondere a queste esigenze a In Volo, Comunità nel Parmense, secondo un approccio che integra l’aspetto psicologico/psichiatrico/nutrizionale con quello relazionale. Abbiamo visto risultati più significativi e stabili nel tempo.

Fin dalla nascita del CEIS abbiamo cercato di dedicare spazio e attenzione alla formazione rivolta alla prevenzione. Partimmo subito con l’idea che la prevenzione coincidesse con la promozione del benessere. Per cui abbiamo iniziato a realizzare incontri con i genitori nelle scuole e con gli studenti,  dedicati a raggiungere questo obiettivo, e dando degli input per accompagnare lo sviluppo adolescenziale e la capacità di progettare la propria vita.

A partire dal concetto di prevenzione abbiamo strutturato numerose esperienze, tra cui una che si chiama Zona Franca, caratterizzata da “sportelli di ascolto” dove vengono accolti a colloquio famiglie e adolescenti non necessariamente con problemi specifici, ma semplicemente per affrontare gli snodi dello sviluppo adolescenziale o di dinamiche familiari che vanno riviste.

In parallelo, è emersa la necessità per i nostri operatori di avere un titolo di studio adeguato, affiancata dall’evenienza che altre persone desiderassero fare questo lavoro; questo ci ha spinti ad organizzare un Corso universitario in Scienze dell’Educazione che ha poi portato alla fondazione dell’Istituto Superiore di Scienze dell’Educazione e della Formazione “Giuseppe Toniolo”, affiliato alla Pontificia Facoltà “Auxilium” di Roma.

L’Istituto Toniolo rilascia la laurea triennale per Educatori sociali e per Educatori dell’infanzia. Molti docenti sono anche operatori sul campo e questo permette un’impostazione particolare di unione tra teoria e prassi.

Nell’occuparci di minori e di formazione, circa dieci anni fa abbiamo avviato un servizio, “Remida”, per ragazzi con disturbi dell’apprendimento e dei bisogni educativi speciali per supportarli nello sviluppo dell’autonomia in ambito scolastico.

Per rispondere invece alla difficoltà dell’inserimento lavorativo diretto di persone che non possono svolgere un lavoro in un ambiente unicamente o prevalentemente produttivo, con l’inserimento nel Consorzio Gruppo CEIS della Cooperativa Piccola Città abbiamo avviato l’agricoltura sociale, con il fine dell’inclusione e della coesione sociale favorendo percorsi terapeutici, riabilitativi e di cura. Per alcuni costituisce un avvio al lavoro e alla relazione lavorativa in vista di un passaggio all’esterno. Per altri sarà una condizione permanente.

Fin da bambino sono stato abituato, anche dalla mia famiglia, a guardare i poveri con un occhio non giudicante, in modo da non avere pregiudizi.

In questi quarant’anni di CEIS mi sono portato dietro questa eredità e un simile, approccio. Partendo dalla convinzione che è impossibile distinguere tra le persone per bene e quelle non per bene, che le fragilità ci appartengono e le difficoltà ci vengono incontro. Dunque, l’importante è cercare delle soluzioni. Con l’impegno e la passione di costruire dei contesti dove le persone possano ricomprendersi e riprendere in mano la propria vita in maniera positiva.

È questo che mi ha guidato. E ancora oggi mi guida.

*Presidente Fondazione CEIS