26 Aprile 2024
Home > Case accoglienza HIV > In piena emergenza Aidsnacque Casa San Lazzaro, esperienza all’avanguardia
Rosa Bolzon

di Rosa Bolzon*

Casa San Lazzaro nasce nel 1991, a Modena, in piena emergenza Aids. I primi casi, in Comunità, li avevamo già visti alla fine degli anni ’80 ed eravamo abbastanza spaesati, non sapevamo come porci di fronte a questo fenomeno.

I medici del reparto Malattie Infettive interpellarono padre Giuliano Stenico perché chi veniva ricoverato, dopo qualche giorno, superata l’infezione, tornava in piazza per poi essere costretto a breve a rientrare in ospedale. Era un andirivieni continuo di malati, in prevalenza tossicodipendenti.

Fu chiesto al CEIS di pensare a qualcosa di diverso per assistere questi giovani.

Nacque così Casa San Lazzaro per sieropositivi e malati di Aids, prevalentemente tossicodipendenti, mutuando per certi versi l’esperienza di Villa Glori, a Roma, gestita dalla Caritas.

Oggi sono 14 gli ospiti residenziali, più 2 diurni, ricevono assistenza medica, psicologica e affettiva. Si fa una vita comunitaria.

Fu un avvio turbolento. La sera in cui se ne parlava, nella casa dei dehoniani, un temporale fece sì che la luce sparisse. Un segno del destino: dal buio sorse la “luce” della Casa.

La parrocchia di San Lazzaro e il Consiglio pastorale misero a disposizione i locali e immediatamente scoppiò una sollevazione popolare, con tanto di assemblea aperta di tutto il vicinato, raccolta di firme e addirittura una causa (che vincemmo noi). Furono comunque i volontari, raccontando le loro esperienze di vicinanza e sostegno ai malati di Aids, a dare una svolta.

L’abbiamo visto e sperimentato negli anni a seguire: la paura dell’Aids si supera se si va incontro alle persone, le si guarda negli occhi e ci si confronta per abbattere muri e pregiudizi.

L’Aids riguardava prevalentemente persone ai margini, tossicodipendenti e omosessuali, già etichettati dalla società. Occorreva cambiare questa visione.

Casa San Lazzaro nasce dunque per volontà di padre Giuliano Stenico, inizialmente una realtà “altra” rispetto al CEIS e a “Progetto Uomo”, trattandosi di un intervento prevalentemente assistenziale.

Le persone però all’interno della comunità continuavano a “farsi”, a scappare, a morire. E tutto ciò creava un grave dissesto. Fino a quando, addirittura, un ospite accoltellò una volontaria.

Si decise allora di cambiare radicalmente strada.

“Devi occupartene tu”, mi dissero.  Ero turbata all’inizio, la situazione era molto pesante. Ma il processo di cambiamento cominciò a prendere il passo: si trattava di unire l’aspetto assistenziale a quello educativo, di dare accoglienza, ma  porre anche dei limiti e delle regole da far rispettare agli ospiti.

Si trattava di rendere Casa San Lazzaro un luogo sicuro.

Fui fortunata: a metà degli anni ’90 sono comparsi i primi farmaci antiretrovirali, quindi la possibilità di essere curati. Mi ricordo un ospite che andava a San Marino per acquistarli, perché in Italia ancora non circolavano.

Un altro episodio, che ricordo come fosse ieri, riguarda un ospite che, durante un incontro, mi apostrofò con durezza: “Mi avete fregato! Sono venuto qui, dopo anni da tossicodipendente in strada, per stare tranquillo, per vivere gli ultimi anni e morire in pace. Voi, invece, mi proponete di vivere! Ma come posso fare? Fuori di qui non ho nulla…”. 

Un episodio indicativo di come stavano cambiando i tempi e di come, grazie ai farmaci, l’Aids cominciasse a essere visto e vissuto in maniera differente.

Anche in questo nuovo contesto non è stato così semplice. I farmaci, a lungo andare, avevano controindicazioni, causavano altre patologie, per cui era difficile pensare a veri percorsi di autonomia per gli ospiti.

Ma siamo andati avanti, ci siamo evoluti e oggi Casa San Lazzaro è un’esperienza all’avanguardia, non solo per malati di Aids ma anche per malati cronici.

Sono stati per me 17 anni estremamente intensi. Si creavano davvero le relazioni di una casa, con tutte le difficoltà che una grande famiglia si trova a dover affrontare.

Ma abbiamo avuto momenti straordinari, di enorme ricchezza umana: abbiamo celebrato battesimi, matrimoni, anche funerali, che era comunque un altro momento di unione forte della nostra comunità.

Ricordo Franca: era stata tossicodipendente, quindi alcolista cronica. Viveva rinchiusa nella sua camera assieme ad un’amica. Non volevano saperne di nulla e di nessuno.

Con immensa pazienza, definendo limiti e confini, siamo riusciti a convincerla a “rientrare” in gruppo. Fino al giorno in cui ha riacquistato piena autonomia e trovato un lavoro.

Quando la sua malattia si è aggravata, ci espresse il desiderio di ricongiungersi con i familiari: i tre figli sparsi per il mondo, una madre che sentiva di rado al telefono e un padre che non la voleva assolutamente vedere.

Il giorno in cui è morta, qui alla Casa, erano tutti attorno al suo capezzale. “Ora posso andarmene in pace”, furono le sue ultime parole.

Ancora oggi mi commuovo pensando a lei, e a tanti altri ospiti. Il senso profondo di Casa San Lazzaro e racchiuso qui: far sì che le persone possano riconciliarsi con sé stesse, nella vita come nella morte.

*Operatrice storica, Presidente CEIS A.R.T.E.